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Dom, Apr

Antologia della critica:

 

Il suo approccio alla pittura risale agli anni 60 ed ha viaggiato sempre di pari passo con l'interesse per il mondo antico. I primi anni 70 lo vedono partecipe del Gruppo archeologico napoletano; contemporaneamente si lascia trascinare nella partecipazione alle più note rassegne d'arte di quel periodo. Nel 79 ha un periodo di lunga riflessione che lo porta ad isolarsi dal circuito cittadino e a considerare l'arte come un'unità inscindibile dal tutto. Sono di quegli anni alcuni dipinti di straordinaria fattura e del tutto innovativi, e una serie di installazioni "nella terra di nessuno": mostre senza inaugurazione, dove il fruitore è colui che di esse si accorge, il passante per caso, gli animali del bosco, il perplesso boscaiolo, o qualche raro quanto inatteso visitatore. Seguono i primi libri in copia unica e un film mai girato. Verso la metà degli anni 90 gli si avvicina il mondo del teatro cittadino, e presta quindi la sua opera ad alcuni lavori di Neiwiller, Uteka, Martone, Berardinis, Cantalupo. Dal 90 al 96 riapre la valigia degli antichi trascorsi archeologici ritornando costantemente alle arti applicate, ma ridando però ad esse per sapienza personalità e inventiva, la dignità di sculture. In questi anni cambia il nome in Zao. Nel 1996 è chiamato all'insegnamento nell'Accademia partenopea e successivamente al Suor Orsola Benincasa a Napoli. Nel 2000 considerata esaurita l'esperienza didattica, ritorna al suo lavoro di sempre che nulla "sembra", e tutto abbraccia.

O. Desio


"Con Perez, Cajati, e Luca (Luigi Castellano)e non esclusa la lezione di Lipari, fu e resta tutt'oggi reale protagonista della scena dell'arte a Napoli degli ultimi 25 anni, segnandone (ognuno nella sua diversità), le 4 fondamentali direttrici; di quell'arte nata a Napoli, ma proiettata al di fuori dello schema di tradizione e di quello d'importazione di tipo Ameliano e che, come nel suo caso, si affaccia autonomamente oltre le cime delle più ardite vette delle avanguardie europee".

Renè Chart


Icone, volti mistici o enigmatici la galleria di Salvatore Vitagliano

Tra i curatori il regista Mario Martone: "Una volta viste, quelle immagini non si scordano"

È un mondo pittorico enigmatico ed a volte misterioso quello creato dall'artista Salvatore Vitagliano nella personale dal titolo "Icone", ospitata al Museo Madre ed a cura di Antonio Biasiucci e Mario Martone (via Settembrini 79, fino al 5 dicembre, tutti i giorni 10.30-19.30 e la domenica fino alle 23, chiuso il martedì).
Un progetto espositivo che, grazie ad un'idea del fotografo Biasiucci e del regista Martone calati nell'inusuale ruolo di curatori, fa conoscere al grande pubblico il lavoro, ancora poco noto, di Salvatore Vitagliano.

L'artista dal carattere estremamente riservato, originario della Valle Caudina dove è nato nel 1950, a sette anni è già a Napoli con la famiglia. Negli anni Settanta è allievo di Augusto Perez con cui condivide la passione per l'antico. Va alla scoperta, in quel periodo, con il "Gruppo archeologico napoletano", di alcune aree archeologiche campane, cominciando così a creare delle piccolissime sculture da micro-frammenti antichi (alcuni esemplari sono esposti in mostra). Si è in seguito avvicinato al mondo del teatro prestando la sua creatività in alcuni importanti progetti sperimentali partenopei. Per il regista-drammaturgo napoletano Antonio Neiwiller ha realizzato una sedia dipinta - esposta in mostra - usata nello spettacolo su Fernando Pessoa "Una sola moltitudine" (1990) - e in seguito ha collaborato anche con lo stesso Martone. Dal 1996 insegna scultura all'Accademia.

Nelle tre sale del mezzanino del Madre sono esposte una serie di opere a cui Vitagliano ha lavorato in vari momenti del suo percorso artistico, a partire dal 1984 ad oggi. Sullo scalone di accesso alla prima sala è collocato il grande lavoro, "Icona mistica" - ripreso da Mario Martone nel film "Teatro di Guerra" (1998) - insieme ad un enigmatico olio su tela, "Fanciulla in bianco" (1990-2000). Entrando nella mostra si accede ad una galleria di ritratti, il più delle volte di piccolo formato.

Sono soprattutto volti anonimi, dove la materia pittorica stratifica l'immagine per progressive velature. Volti che perdono vita per dissolvenza nel contesto da cui s'immagina siano tratti, per acquisire una nuova vitalità nello spazio pittorico. È un modo di dipingere all'antica, quello di Vitagliano. La parentela più stretta fa pensare ad i ritratti del Fayyum, la prima collezione di facce umane della storia dell'arte: tavole su cui erano dipinti a encausto volti di persone rappresentate prima o dopo la morte. I volti di Vitagliano sono un enigma. Velàzquez, Antonello da Messina o Sebastiano del Piombo ritraevano notabili, personaggi riconoscibili o alla cui identità si poteva risalire.

Il contrario di quello che fa l'artista napoletano. Le opere pittoriche di Vitagliano funzionano come una porta tra due realtà: una è quella rappresentata e visibile, l'altra un universo parallelo che si apre all'invisibile, all'ignoto. Il tempo sembra essersi fermato ma in realtà i volti anonimi si muovono nella trama pittorica quasi come fantasmi, che come scrive in catalogo Martone "una volta visti difficilmente vengono dimenticati".

Renata Caragliano


Salvatore Vitagliano, il ritratto del silenzio

Salvatore Vitagliano, pittore e scultore napoletano, incarna un’anima della città vicina più al silenzio e alla meditazione che al frastuono e all’esuberanza delle rappresentazioni che questa terra vulcanica ha imposto di sé. Vitagliano ricuce nelle sue opere quel rapporto, a un certo grado impari, tra Natura e Ragione, decantato da narratori e filosofi dell’Europa non toccata dal mare, conchiuso nella vita e nella poesia di Giacomo Leopardi e contemplato poi da Annamaria Ortese nel suo Il silenzio della ragione. Davanti alle tele di Vitagliano, spesso mi sono chiesto cosa vedessero gli occhi dei suoi ritratti fantastici, compagni più di Tommaso Landolfi che di Howard Lovecraft, e sempre dimenticavo che Freud aveva scritto del Mosè di Michelangelo, che sembra levarsi a scorgere qualcuno o qualcosa, che egli, il Profeta, non guarda chi o cosa ma siamo noi a guardare lui e, al contempo, scrutando dentro noi stessi. In questo ricorrente oblio, forse astuta, forse sciocca dimenticanza, c’è una pausa che ci avvolge, di suono e di tempo, dove lo spazio e i colori si illuminano e si rabbuiano, come se pulsassero, per poi portarci a scoprire che siamo noi a pulsare.

Vorrei chiederti qualcosa per presentarti ai lettori.

«Per esempio, potresti chiedermi: cosa pensi di quegli artisti che lavorano sui temi spirituali? Cosa pensi del dominio del concetto rispetto alle arti figurative? Oppure: il denaro è importante?».

Comincio col dire che si è appena chiusa una tua mostra al museo Madre dal titolo Icone.

«Sì, in accordo con il regista Mario Martone e il fotografo Antonio Biasiucci l’abbiamo intitolata così perché abbiamo deciso di esporre solo volti e figure, icone appunto».

Nel catalogo della mostra Mario Martone ha scritto una cosa molto bella su di te, e lo ha fatto di ritorno da Mosca, la città con la più grande tradizione iconografica del mondo, ricordando la tua partecipazione al suo bel film Teatri di guerra dove lui filma una tua opera, un retablo, presente anche nella mostra. Nell’introduzione racconta anche della tua amicizia e collaborazione con lo scomparso regista teatrale Antonio Neiwiller.

«Tra me e Antonio c’era amicizia e un’estrema fiducia. Nella mia mostra si poteva vedere una sedia che ha fatto parte di uno spettacolo di Antonio, Una sola moltitudine, e che io infatti ho esposto al Madre nelle stesse condizioni in cui era in scena: in penombra, con lo schienale rivolto alla platea perché al pubblico era permesso salire in palcoscenico e visitarlo. C’era allora una piena sintonia tra i versi di Neiwiller, quelli di Pessoa, a cui era ispirato lo spettacolo, e l’installazione che costituiva la scenografia, cioè un’armonia tra corpo, parola e immagini. Esponendola in quel modo al Madre ho voluto lasciare la vita che quell’opera aveva in sé, nella sua storia».

Pensando ai tuoi ritratti, la moltitudine e la molteplicità sono temi che riguardano anche te.

«Forse perché i volti dei miei ritratti sono un unico volto. Tutti i volti, tutti i ritratti sono una sorta di autoritratto, di riflessi, come a guardarsi in uno specchio, sono tutti frammenti di noi, i più profondi. Ma è difficile far rientrare questi concetti in una mostra oggi, le grandi mostre sono degli eventi, eventi con un tema non molteplice ma unico, che deve colpire, e subito!, lo spettatore. Si utilizzano allora opere monumentali e trasgressive che devono annullare ogni rapporto con il passato e con il futuro per colpire il pubblico lì, in quell’istante. Invece esistono opere di artisti che necessitano di un tempo più dilatato, su cui il pubblico deve soffermarsi per poterle cogliere. Ma oggi abbiamo un pubblico che in genere ha fretta e che quindi viene infastidito da opere come le mie, per la richiesta di tempo che fanno. La gente ha poco tempo per fermarsi e per pensare».

L’introduzione di Antonio Biasiucci al tuo catalogo mi ha ricordato un’immagine molto cara che vorrei condividere con te e che riguarda gli artisti. Il finale del film Il pianista di Roman Polansky, quando il protagonista ebreo fugge tra la neve di Varsavia con addosso il cappotto di un ufficiale nazista. I russi, che hanno appena liberato la città, lo inseguono e gli sparano addosso; quando lo raggiungono, capito che non si tratta di un nemico chiedono al pianista ebreo perché mai abbia quel cappotto nazista addosso, lui risponde: “Perché ho freddo”.

«Tanti artisti vivono la stessa condizione di quel pianista. Costretti ad accettare di esporre in luoghi che non sono consoni al circuito artistico o a lavorare a cose che non sono troppo dignitose per essere poi derisi, svalutati o semplicemente ignorati. Anche loro potrebbero rispondere: “Noi avevamo freddo e abbiamo preso quello che abbiamo trovato per riscaldarci!”. A volte basta guardarsi intorno per scoprire cose belle. Penso a bravi pittori come Enrico Cajati, morto dieci anni fa, penso al fatto che al suo funerale c’erano solo cinque persone e che quel giorno e nei giorni successivi non apparve nemmeno un rigo sui giornali per commemorarlo».

E’ strano, sembra che oggi il concetto di osceno si sia capovolto, spesso per il pubblico e la critica non è oscena certa arte ma gli sforzi di sopravvivenza di certi artisti.

«Infatti. Bisogna addirittura ricordare che osceno è ciò che è brutto. Il volto di un santo potrebbe essere osceno e quello di un demone no, dipende dalla qualità e dalla profondità di chi li dipinge. Io insegno all’Accademia di Belle Arti qui a Napoli e con i miei studenti cerco di fare innanzitutto dei percorsi di riflessione su ciò che è bello e ciò che non lo è, ma senza che io interferisca troppo, lasciando che arrivino da soli a certe considerazioni. Questo mi sembra l’unico modo per riportare ciò che è osceno al suo luogo naturale, fuori dalla scena, dallo sguardo, dalla convivenza con gli esseri umani».

Ho sempre visto in te, in una certa tua reticenza a mostrarti, la stessa delle tue opere d’altronde, la custodia del segreto di questa città.

«Tutte le città nascondono qualcosa. Napoli ha una forte vitalità e una storia che ci accompagna e ci insegna ancora oggi. Molti artisti vengono qui per assorbire la sua energia, forse anche per la luce che c’è, una luce stupenda, data anche dalla vicinanza del mare. Intanto c’è del fuoco sotto la città che abitiamo, che unito alle altre cose, la rende piena di meraviglie e stupori. Napoli ha una tradizione spesso incompresa o disdegnata ma che invece è bella e per niente statica; se vai a S. Gregorio Armeno, per esempio, ti rendi conto che la tradizione dei pastorai si rinnova continuamente, con tecniche svariate che attirano collezionisti da mezzo mondo. Napoli è una città che invita ad essere svelata, un suo emblema è infatti la scultura di Giuseppe Sanmartino, Il Cristo velato, che indica appunto lo svelamento necessario della città, della sua natura esoterica e misteriosa».

Allora ti chiedo: cosa ci serve questa natura altra da svelare?

«Ci serve a ritrovare noi stessi, il velo non è solo sugli altri ma anche su di noi ed è un invito a svelarsi per essere. Ma come spesso accade per le cose molto importanti, questo aspetto della città non risuona, non ha visibilità come altri suoi caratteri. In questo senso, il ruolo dell’artista è quello di svelare. Virgilio raccontò la leggenda dell’uovo nascosto sotto il Castel dell’Ovo e lo fece per dare indicazioni, per mettere in moto dei meccanismi di riflessione del nostro cervello, per lanciare un invito a incamminarsi in una certa direzione. Fermarsi a riflettere, criticamente, a questo servono i simboli, e in questa riflessione, in questa pausa, accade qualcosa che ci cambia, che ci trasforma. Forse la paura di questo cambiamento interiore spinge molta gente a disdegnare le opere che ci scrutano dentro».

Napoli è anche una città che produce tanto rumore…

«Questo suo rumore mi fa compagnia».

E tanta capacità di ridere…

«Una comicità che serve a esorcizzare il dolore. Il solo pensiero di Totò mi fa ridere e ne ho bisogno. Del resto molti comici sono persone tristi nella vita quotidiana e si mettono a far ridere sul palcoscenico proprio per sfuggire alla tristezza».

Ma c’è un legame tra la sua comicità e quella luce che tu prima dicevi essere così particolare qui.

«Sì. Per un pittore è necessario avere una giusta luce, che non deve essere troppa ma nemmeno poca, questo vale anche per la comicità, che deve essere genuina ma non stupida, forte ma non eccessiva. Napoli ha una luce precisa che favorisce la contemplazione e la visione delle cose. A Ragusa c’è una luce troppo forte, a Milano una luce grigia, a Napoli c’è la luce giusta per l’artista. Ridere, come la luce, è qualcosa contro l’oscurità, ma deve servire a farci vedere meglio le cose, malgrado la sofferenza, la bruttura e le menzogne».

Maurizio Braucci


Il volto seducente e ambiguo del «possibile»

Vitagliano, una pittura dolcissima e velenosa

Il giovane artista espone a «L’Ariete» di via Manzoni

C’è indubbiamente bisogno di molto coraggio per fare come Salvatore Vitagliano, che in questi ultimi anni ha voluto rimescolare le regole di una ricerca pittorica che egli veniva ormai conducendo con crescente sicurezza e con risultati di una qualità così alta da sembrare miracolosamente conquistata sui più ardui crinali della storia dell’arte: una qualità imperturbabile, anche quando lo scatto della fantasia, improvviso e violento, spingeva l’immagine nelle regioni abitate dalle strane creature della notte e del sogno. Anzi, proprio allora, mentre l’immagine esibiva vistosi processi di metamorfosi, risultava maggiormente evidente che la pittura di Vitagliano possedeva una sua interna spazialità, stabile ed omogenea, in cui la forma poteva di nuovo assestarsi, rivestendosi di un tessuto cromatico vibrante nell’intensità dell’impasto e nell’ampiezza del registro, ma sempre seducentemente integro.

Ora il giovane artista campano – che può a ragione essere considerato un autentico protagonista della pittura italiana dell’ultimo decennio, ben diversamente, s’intende, di quei tanto più noti suoi coetanei che gareggiano «selvaggiamente» sui circuiti del mercato, al seguito di spregiudicati manager – ha sconvolto le coordinate del suo precedente percorso, liberando lo sguardo sull’orizzonte del possibile. Ma per far ciò egli ha innanzitutto messo in questione quella «qualità» delle immagini che, proprio per la sua felice persistenza, accennava a surrogare, in funzione gratificante, la percezione del mondo delle cose.

Con le opere esposte nella galleria L’Ariete, Vitagliano ha voluto correre il rischio di una nuova avventura, poiché sapeva di aver tanto fiato da poter discendere entro gli strati oscuri della propria soggettività, nel cuore pulsante di vita da cui provengono i fantasmi dell’arte, spinti in alto dalla forza dei desideri, verso lo schermo luminoso della coscienza e dei sensi, che è poi la soglia da cui il nostro corpo s’affaccia sullo spettacolo del mondo e s’inoltra nella rete dei rapporti intersoggettivi. Lungo questo doppio tragitto, di vertiginosa immersione e di lento ritorno sulla superficie, l’artista non ha smarrito la consapevolezza della dimensione culturale dell’esperienza pittorica. Perciò questa, in Vitagliano, rimane anche oggi estranea ai luoghi comuni e banali della poetica surrealista, non è uno sprofondamento inconsulto nell’inconscio né essa s’affida all’automatismo del segno.

È piuttosto una rifondazione del senso di quella dimensione culturale, scandagliata oltre che lungo i suoi tramiti storici, nelle sue profonde radici esistenziali. Se è vero, perciò, che l’attuale pittura di Vitagliano provoca talvolta l’inquietante effetto di una fascinazione medianica o quello di una presenza enigmatica e sgradita, evocata da chi sa dove, ma nella quale infine sei costretto con disagio a riconoscerti, con le tue inconfessate ambiguità, non bisognerà meravigliarsi che essa riveli qualche singolare memoria dell’arte simbolista e romantica. Allo stesso modo, volendo ricordare, come è giusto, la più bella delle sorprendenti sculture presenti nella mostra, si dovrà osservare che questo «animale», di aggressiva eppure patetica vitalità, sembra sia uscito da un incubo dell’immaginazione, ma potrebbe arricchire i «bestiari» della scultura romanica.

Nelle opere in cui più evidente è la consonanza con i motivi simbolisti il colore passa da irregolarità e spessori materici da art brut a sottigliezze estremamente raffinate dove svariano i gialli, i verdi e gli azzurri, scambiandosi dolci tenerezze e acidi veleni. Si veda ancora come dietro le figure femminili dipinte su due grandi tele si scoraggiano misteriosi paesaggi che ora sfumano tra vapori ed umide esalazioni lacustri, ora sprondando nell’area diventata così densa, cupa e buia da provocare il ricordo, o la paura, di una morte per annegamento.

Ma vi sono altri quadri che, ad una prima considerazione, possono sembrare lontani da questa poetica che, riscoprendo un arco amplissimo e oltremodo vario di possibilità espressive, conferisce all’elemento iconico, su cui poggiano gli schemi compositivi e i ritmi formali, una grande ricchezza di significati ed eccita una risonanza psicologica nel cui cerchio è difficile non rimanere emotivamente coinvolti. In queste immagini la sostanza figurativa si direbbe svanire al di là dello schermo del quadro, dove non rimane che una fugace impronta, dove la forma appare rotta da una gestualità frenetica che esalta la luminosità del colore, facendola sprigionare dall’interno o suscitandola sulle stesse zone d’ombra, come un brillio e un fremito della pelle della materia.

Ma è facile capire che anche qui, in queste immagini che danno l’impressione di una più diretta e felice esposizione all’aria aperta, tanto da far pensare ad un ritorno alla natura e alle circostanze familiari del paesaggio campano, in realtà Vitagliano continua a comunicare il fascino di un sentimento della vita che non si esaurisce nell’emozione del presente, ma è capace di cogliere in questo gli ambigui e capziosi lineamenti del possibile.

Vitaliano Corbi