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Sab, Ott

Leone Giuseppe

Leone Giuseppe

Giuseppe Leone nasce a Buonalbergo nel 1948, dove tuttora vive e lavora. Oggi si divide tra la ricerca artistica e l’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dopo la formazione accademica svolta sotto la guida di Armando De Stefano,nel 1979 l’esordio in una personale, alla Certosa di San Giacomo di Capri. Leone presentava le opere del "Ciclo di Esther".

I lavori di questo periodo sono imperniati sul carteggio di una giovane dell’alta borghesia di inizio Novecento, Esther appunto, che scrive dal collegio al proprio amore lontano. Le cartoline a motivi Liberty, le affiche che fanno da nucleo centrale dell’opera, sono reali, (in equilibrio tra l’etica dell’objet trouvee,e l’intuizione della poesia visiva) – acquistate in blocco da un rigattiere – ma vengono inserite da Leone in una matrice pittorica elegantissima nell’ornato, ma algida tanto, che pare ricreare la grazia decadente della carta da parati più preziosa, in perfetto stile "interno borghese". Scriveva a proposito Michele Sovente: "Lo spazio pittorico è vasto, scandito con una pulizia meticolosa – quanta pulizia vi è nel mondo di Esther – e al centro, come su un trono, domina la cartolina... Incorniciata dall’oro. Un colore di una tragicità e di una cattiveria assoluta. Che non strizza l’occhio al kitsch ma si rivela nella sua forma di mimesi rovesciata". Negli anni subito successivi, il medesimo impianto compositivo sospeso tra l’ornato ed il geometrismo, sostituisce alla cartolina floreale e al dato scrittorio e semantico, il dato oggettuale e plastico. L’oggetto (magico per lo più), l’amuleto, che poi tornerà a più riprese (sotto forma di ex voto, corno, bastone pastorale, di "feticcio d’amore" come nella definizione dello scrittore e critico napoletano Ugo Piscopo) nella ricerca pittorica di Giuseppe Leone. È il 1981 e vede la luce il ciclo che prende il nome di "La Luna e la Chiave..." in mostra nello stesso anno agli Arsenali della Repubblica di Amalfi. Una chiave, anch’essa reale, diventa all’interno del quadro sia elemento evocativo, perché contrapposto alla Luna dipinta a fogli d’oro, sia elemento dinamico perché spezza con la sua realtà plastica e funzionale la bidimensionalità del piano pittorico. È ancora lo stesso meccanismo narrativo di Esther, quello che l’artista stesso definirà "del teatrino", ma che viene ora esasperato, trasposto dal piano del vissuto personale e quello del desiderio collettivo: se prima era Esther a desiderare la persona amata ora è una intera ed ideale umanità che chiede la luna, che ne agogna la chiave di accesso. "La ricerca artistica di Giuseppe Leone, nel corso degli anni passati era stata acutamente sollecitata dalla possibilità di innestare sul tronco dell’immagine la linea del discorso verbale e della parola scritta. Ma rapidamente nel corso di una esperienza pittorica divenuta via via più intensa e ricca di risultati l’artista è venuto neutralizzando la dimensione semantica della parola (o dell’oggetto) inseriti nel contesto del quadro, e ne ha sviluppato, invece, il momento di libertà gestuale, di presenza percettiva rapida ed immediata". Così scriveva Vitaliano Corbi nel 1983 in occasione della Mostra Dehoniana di Napoli, dove Leone presentava i risultati di una nuova ricerca. Sulla scia della consapevolezza cromatica e compositiva dei primi lavori, (le "capacità psico-espressive del colore" di cui scriverà Massimo Bignardi nel 1988) l’artista si concentra con particolare attenzione sull’aspetto gestuale e spesso materico del fatto pittorico. Lo spazio del quadro perde progressivamente di geometria, acquistandone però in rigore: Leone traduce in pittura il linguaggio e la metrica della grafica giornalistica che egli in quegli anni andava sviluppando come impaginatore, presso le redazioni delle maggiori testate napoletane: è quello che Bruno Corà definisce "il Teorema emotivo dello spazio" (1983). La pittura di Leone nel corso della prima metà degli anni Ottanta attraversa varie fasi tutte segnate da una tensione gestuale che lo avvicina ai modi dell’informale più avanzato. Il lavoro sul segno e sul colore non rinuncia, tuttavia, all’emozione e all’ironia: nella dinamica del quadro vengono infatti introdotti elementi, come lo specchio, che amplificano la dimensione interpretativa dell’opera, segnando molta della produzione successiva. Prendono forma vari cicli dall’82 all’86 dagli indicativi nomi di: "Gesti"; "Superfici"; "Cellule". "Non pongo limiti alla mia futura attività artistica: può essere il figurativo o ancora l’astrazione, l’oggetto della mia ricerca... Mi sento come un esploratore in cerca di nuove verità, di altri fattori della conoscenza". Così Leone in una intervista del 1986. Ed infatti nel 1988 prendono forma i "Paesaggi di memoria", che marcano il transito dalla matrice informale a quella di una ritrovata immagine, che è però ancora sfumata,sommaria, evocativa, molto più che rappresentativa: un’immagine resa, come dice ancora Ugo Piscopo, "per colori, o meglio, per assaggi di colore, colta allo stato di nascita aurorale o citata per campionature di situazioni mature". L’anno successivo, per il tramite di una ristretta produzione di grafiche eseguite per una galleria beneventana, la virata alla figurazione si fa invece più decisa, consapevole e carica di ironie verso "questi tempi di riflessione (c’è chi parla di restaurazione, chi accenna al riflusso)" di cui parlava Gino Grassi, che in quegli anni si occupava dell’artista di Buonalbergo. Nascono su tali premesse i "Vesuvi" (all’inizio una serie di incisioni all’acquaforte su carta e lastre di giornale, poi un ciclo di dipinti veri e propri), in cui l’immagine del vulcano viene svuotata di tutti i suoi contenuti specifici. Il Vesuvio diventa, nell’universo pittorico di Leone, l’allusione di (l’allusione a) se stesso, l’esempio vacuo di una napoletanità ridotta, dall’uso, a puro stereotipo e paradigma di un’informazione visiva ormai appiattita dalla ridondante (e qui l’intuizione della grafica d’autore) estetica pubblicitaria. Leone opera, a modo suo, quelle istanze di analisi critica all’immagine mass-mediatica che furono proprie, tra gli altri, del Pop Wahroliano. Che egli ebbe modo di assorbire nella frequentazione dei circoli artistici napoletani (la Galleria Amelio ad esempio ospitò mostre e dibattiti a cui partecipò lo stesso Warhol) che alla metà degli Anni ‘70 portavano in Campania i migliori nomi della scena artistica internazionale. È in questo periodo che matura uno dei fattori fondanti della più recente produzione dell’artista: l’immagine seriale, ripetuta, esasperata nel suo sfruttamento, tanto da venire sublimata, mutata in atto rituale. È il Vesuvio della fine degli anni Ottanta che poi diventerà la sagoma del bambino; la pecora ed il pugnale del ciclo "Arburesa"; la bombetta nera (tutte immagini presenti nei cicli della prima metà degli anni Novanta), fino ai calchi del volto, delle mani dell’artista nei quadri-installazione del Duemila ed ai profili di narciso ed ai galli dell’ultima produzione. Gli anni Novanta sono ancora anni di lavoro, di ricerca e di importanti collaborazioni come quella con il poeta visivo Luciano Caruso. Leone intraprende in questi stessi anni la docenza alla cattedra di Tecniche pittoriche,a Catanzaro, Lecce, Sassari,Carrara e Napoli ma contemporaneamente mette a punto un’altra caratteristica che sarà poi tra le più peculiari di tutta la sua produzione matura: "la Calligrafia". "II segno di Giuseppe Leone sa farsi grafema, senza per questo proporsi come scrittura significante". Così il critico Rosario Pinto, nel 1999 durante un dibattito organizzato dall’editore Guida di Napoli sull’opera dell’artista, che in quegli anni andava recuperando inoltre, tutto il patrimonio culturale della sua terra natale, il Sannio. Un dato grafemico che è pura gestualità dinamica, texture, ai limiti della scrittura cromatica e della poesia visiva, che non viene però mai compiutamente esercitata. Ne sono esempio il ciclo di opere eseguite dal 1995 al 1998 a quattro mani con Luciano Caruso. Leone con la sua "falsa scrittura" si limita a creare una superficie disponibile all’impronta, della scrittura – quella vera, significante (sebbene altamente destabilizzata dalla poesia) – proposta da Caruso. Dalla fine degli anni Novanta vedono la luce anche una serie di pitture installazioni in cui l’artista ricrea, nell’impianto compositivo dell’opera, la valenza sacrale e monitoria dell’arte totemica e rituale, come ha analizzato in varie pubblicazioni il critico Michelangelo Benvenuto. Molte di queste opere formeranno tre importanti personali: "Segni e Magia", "II Tempo, l’Anima e le Forme" e "Nello Spazio come nel Tempo" succedutesi fino al 2003 in varie sedi italiane. Negli ultimi anni, quelli dopo il Duemila, Leone è giunto a posizioni di sintesi di tutta quanta è stata la sua passata produzione. Facendo del quadro la membrana mobile di una ricerca, che indaga tanto le ragioni dei contenuti che quelle dei linguaggi, Giuseppe Leone giunge d’esperienza, di volontà – come dirà spesso – ad una riduzione formale che fa, nonostante la pluralità degli interessi, della visione pittorica in campo specifico dell’agire estetico.