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06
Mer, Nov

Di Ruggiero Carmine - Critica

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Giorgio AGNISOLA - Carmine Di Ruggiero ventanni di opere

Massimo BIGNARDI - L'energia di un Vesuvio mai spento

Achille BONITO OLIVA - Carmine di Ruggiero

Michele BONUOMO - La nuova maniera di Carmine Di Ruggiero

Toti CARPENTIERI - Carmine Di Ruggiero

Luciano CARUSO - L' ossessione del modello

Vitaliano CORBI - Il ciclo della luce

Enrico CRISPOLTI - Geometria e Ricerca : Carmine Di Ruggiero

Gillo DORFLES - L'oggettualizzazione dell' immagine

Luigi Paolo FINIZIO - Note sulla pittura di Carmine Di Ruggiero

Donatella GALLONE - Silenzio. Nella stanza del pittore

Claudia GIANFERRARI - Di Ruggiero al Cenobio Visualità

Mario MAIORINO - Momenti di una pittura italiana

Alessandro MASI - La pittura al tempo della luce. L'arte di offrire libertà alla fantasia

Filiberto MENNA - La costruttività dell'immagine e dello spazio

Rosario PINTO - Un accostamento discreto alle carte di Carmine Di Ruggiero

Ugo PISCOPO - La corda interna del silenzio

Maria ROCCASALVA - Di Ruggiero a Cavallerizza a Chiaja

Ciro RUJU - La simbologia di Carmine Di Ruggiero

Giorgio SEGATO - Diverse Gener-azioni. Sentire Spazi, Costruire Idee.

Gabriele SIMONGINI - Viaggio a Spoleto

Franco SOLMI - La pittura di Di Ruggiero : un punto certo di riferimento

Angelo TRIMARCO - Geometria e Ricerca

Aldo TRIONE - Dal ciclo dei fogli "I dialoghi col poeta"

Laura TURCO LIVERI - Carmine Di Ruggiero. Il corpo della luce

Lea VERGINE - Undici pittori napoletani - Chi fa rumore in giardino?

Oreste FERRARI - Carmine di Ruggiero

Gino GRASSI - Variazioni sul silenzio

Arcangelo IZZO - L'utopia della sensazione animatrice della materia inerte

Riccardo NOTTE - Dialettica fra l' eterno e il tempo in Di Ruggiero

Mariantonietta PICONE PETRUSA - Il gruppo Geometria e Ricerca : Carmine Di Ruggiero

Nicola SCONTRINO - Le ragioni di una presenza

Angela TECCE - Il rinnovamento della pittura in Italia

 

 

 

Giorgio Agnisola

CARMINE DI RUGGIERO VENT' ANNI DI OPERE

Una duplice tensione interna sembra animare le immagini di Carmine Di Ruggiero: nelle lontane soluzioni informali e materiche, degli anni Cinquanta e Sessanta, segnate da forti accensioni cromatiche, ma anche da morbide apprensioni segniche e visive, in quelle dell'intermedio periodo astratto-geometrico degli anni Sessanta, caratterizzato, sotto il profilo formale e compositivo, da un'articolata e pure modulata pronuncia costruttiva: nella successiva rinnovata immersione nella temperie astratta, segnica e pittorica, connotata da una sorta di naturalismo intimista, poetico e concettuale: negli esiti più recenti, che riaprono anche in chiave neopop, il capitolo della ricerca materica, entro una più vasta ed essenziale sperimentazione visiva.
In realtà si avverte, anche nelle soluzioni più fresche e libere, come nella lunga e felicissima serie di opere su carte, dei primi anni ottanta, titolata "I dialoghi col poeta", una contemporanea presenza di segni vibrati sulla corda di una interna e silenziosa visione (tesi a recuperare metaforicamente spazi addensati e indistricati della sensibilità e dell'emozione) e di indicatori (in genere frecce, archi, tratteggi...) che intervengono come segni di orientamento per chi legge, ma anche per chi dipinge, introducendo nell'immagine spinte e risalti di taglio più simbolico e mentale.
La stessa attenzione puramente visiva all'esito dell'immagine, che pure è determinante nell'economia espressiva dell'opera, si ricollega alla lucidità estetica del maestro più che ad una scelta per così dire tecnologica, alla sua forte sensibilità percettiva, ad una sua capacità interpretativa istintivamente interna e intensa degli stati dell'essere e del sentire.
In effetti, da subito l'arte di Di Ruggiero acquista un connotato che, al di là della soluzione stilistica, appare sempre trascrittivo di sé, narrativo ed autonarrativo: rilievi formali e parvenze segniche e cromatiche, ma anche geometrie ed interventi oggettuali e matrici di variabile natura, compongono sulla tela e sulla carta o nello spazio con un taglio di forte compattezza psicologica ed emotiva. Ne è prova indiretta la stessa libertà del segno, che appare sempre vibrato come se fosse assistito da una sorta di prefigurazione interna, di illuminazione anticipatrice, anche se l'opera nel concreto si compie nel suo farsi, nel suo accadere compiutamente nel momento stesso dell'espressione.

Ciò è ancora vero nelle opere attuali di Di Ruggiero, in cui l'artista compie una sorta di rifiltrazione delle esperienze precedenti, di recupero teso anche ad una semplificazione, ad una essenzializzazione visiva, soprattutto sotto il profilo tonale, ma altresì sotto quello simbolico ed allusivo. La luce, del resto, è sempre stata uno dei medium rivelatori della sua arte. Una luce che emana prima dell'opera stessa e dopo, come risultante di una sintesi visiva che implica una sintesi espressiva. Una luce che oggi esplode, abbacinante, evocando la rarefazione e la purificazione della stessa materia che recupera nel suo impasto laceri di vita, segnali riflessi del profondo, ma anche, provocatoriamente, oggetti d'uso quotidiano (persino gli attrezzi del pittore), in cui sembra compiersi il teso bisogno di una pensosità più vasta, umana e sociale: intensa e discreta, senza clamore, distillata nel silenzio.


Giorgio Agnisola

Successo dell'esposizione
al Centro Culturale "II Pilastro"
in "La Fonte", 2000


 

Massimo Bignardi

L'energia di un Vesuvio mai spento

 

[...] Per certi versi le esperienze di Renato Barisani e di Carmine di Ruggiero viaggiano in una sorta di sincronia ideale, che, in alcuni momenti, li ha visti percorrere una strada comune e penso soprattutto al momento di ricerca, nella seconda metà degli anni settanta, del gruppo dell' Immaginario Geometrico, così come l'ha voluto chiamare Luigi Paolo Finizio. Va osservato che, sgombrando il campo da qualche confusione storiografica, quando nascono le prime esperienze di Carmine Di Ruggiero, dichiaratamente astratto espressivo, con opere quali ad esempio la Crocifissione del 1957 o il Muro e arbusti, L'urlatore entrambe del 1958, il percorso di Barisani aveva già attraversato la grande stagione del MAC ed era approdato ad una lettura nuova ed organica di un materismo informale che guarda con attenzione ad un «reale tradotto a traccia» (Vergine). Ve forse in questo un guardare ad un comune denominatore: voglio dire che entrambi vivono una situazione intellettuale che è la misura di un nuovo porsi, eticamente legato al tessuto storico ed antropologico della propria terra. Barisani in quegli anni opera una scelta che poi si mostrerà fondamentale negli anni. In tal senso si guardino i lavori realizzati sullo scadere degli anni ottanta: sui fondi di impasti materici, sabbiosi, l'artista faceva vivificare elementi tratti da un registro naturale di forte immaginazione, ricco di una solarità intensamente mediterranea, rivedendo il dialogo tra forma e materia, tra materia e colore, tra colore ed emozione.

Una tensione che è presente in opere quali Tempo sul muro, o anche Tufo e sabbia entrambe del 1959. Nell'ampiezza della sua ricerca, come già osservato in uno scritto del 1986, Barisani ha sempre guardato al rapporto che si instaura tra contenuto e forma: questo sin dalle esperienze degli anni quaranta, si veda ad esempio Nudo sdraiato, un gesso del 1948; e prima ancora nelle opere plastiche dell'esordio, Studio di modella del 1941, avvertendo echi della scultura di Maillol, filtrati della lezione di Martini, sino a giungere alla cultura italica, in chiave di interpretazione storico-antropologica, espressa da Marini. Quest'ultima sensibilizzerà il ciclo delle Teste realizzate in gesso colorato, per la quasi totalità andate distrutte, eseguite da Barisani tra il 1948 e il 1949.

Le motivazioni di fondo del suo operare verso un più stretto rapporto tra contenuto e forma sono espresse con grande lucidità anni dopo con l'adesione al Movimento Arte Concreta, e poi con il momento di attenzione ad una sorta di informale-materico, al breve avvicinamento alle esperienze del Gruppo 58 alle successive sculture meccaniche realizzate nella prima metà degli anni settanta, sino alle opere realizzate tra il 1984 e il 1989 che l'artista chiama di «astrazione organica». L'esperienza complessiva di Barisani sembra guardare a quella circolare sequenza annotata da Kandinskij nel 1910. La sequenza 'Emozione-senso - opera-senso-Emozione', spiega sinteticamente il valore assunto dalle vibrazioni spirituali dell'artista «che deve perciò trovare, come mezzo d'espressione una forma atta ad essere recepita. Questa forma materiale è il secondo elemento, cioè quello esterno, dell'opera d'arte» (Kandinskij).

L'esperienza artistica di Carmine Di Ruggiero si muove nei precisi confini disegnati da un assunto di Pascal, al quale spesso l'artista ricorre: «Due eccessi, escludere la ragione, ammettere solo la ragione». Il confronto penso che si delinei nei movimenti tra luce, superficie esplosiva di colore, sostanzialmente identificabile, spesso fenomenica e la luce, lo scuro, l'assenza di colori. La ragione che trova conferma nel giorno e la notte, il luogo del sogno, dell'inconscio. La pittura di Di Ruggiero ha questo doppio canale che corrisponde, anche, al suo difficile approccio con la città, con Napoli. «È uno spazio dell'immaginario collettivo che si dibatte tra contraddizioni e dualismo connaturati nell'animus del napoletano - osserva l'artista in un'intervista del 1985 - che ama dibattersi tra Vico e Pulcinella, tra Luca Giordano e "Rossi pittatutto", tra Croce e la vita rutilante e inventata dei vicoli, tra il "barocchetto" e i problemi degli altiforni dell'Italsider, tra camorra e perbenismo, tra la cultura viva e aperta e quella dei rimpianti per una serenata a Maria».

Massimo Bignardi

Electa, Perugia, 1992


Achille Bonito Oliva

CARMINE DI RUGGIERO

La contestazione che oggi un operatore di cultura può attuare nei confronti di una realtà che si presenta a pezzi, nella doppia polarità della visione accelerata (impressione) o dell'estremo evidenziamento è quella di un rilevamento e di una susseguente modifica del dato in formulato. Ovviamente nella definizione del dato entrano pure i modi istituzionali di visione attraverso cui questo si presenta. Ed allora il compito dell'artista risulta essere quello di riqualificare il dato, dandogli, appunto, una struttura visiva che corrisponda assolutamente alla sua ossatura di base, depurata da sovrastrutture e schemi precostituiti di percezione. Carmine Di Ruggiero come metodologia del proprio fare ha posto alla base un atteggiamento operativo, che cerca assolutamente di stabilire ed impostare un tipo di visione, in cui le leggi ottico-percettive abbiano un fondamento razionale e cioè verificabile. Per fare ciò egli analizza uno specifico del campo pittorico, lo spazio, con una concezione logico-formale della realtà e cioè la definizione dell'elemento spaziale come estensibilità, che per essere una qualità non può essere contenuta appena nella superficie estetica. Tale concezione di stampo razionalistico, già imposta e presuppone anche l'intenzione da parte dell'artista di scardinare le leggi percettive, che, per la loro stratificazione, hanno dato alla visione un occhio precostituito. Qui appunto si intende modificare tale atteggiamento ed opporre al momento stereotipato della percezione un momento assolutamente rigoroso e sperimentale. Per fare ciò Di Ruggiero parte da una definizione volutamente astratta e cioè formale dello spazio e per realizzare il formulato si serve strategicamente della qualità di congelamento del colore bianco, il quale, distribuito sui piani formanti la superficie del quadro, determina un unico tempo di percezione. Infatti il bianco ha una capacità di notevole espansione e quindi di estroversione dal quadro che provoca un avvicinamento della superficie estetica verso l'esterno, verso la retina dell'occhio dello spettatore. Cosicché il colore riesce a contenere in unica dimensione visiva le profondità dei vari piani sovrapposti e la non emergenza di questi viene realizzata appunto attraverso l'attuazione e la verifica di leggi di percezione cromatica. E proprio dall'analisi esperenziale consegue anche la constatazione dell'attitudine del bianco a stabilire con lo spettatore un rapporto di contemplazione. Un rapporto, che, cosi configurato, presupporrebbe una visione statica della realtà, inconcepibile per l'uomo moderno, il quale si trova posto e trasposto su una scala non più antropocentrica dei valori ma calata direttamente in mezzo agli eventi della situazione storico-esistenziale. Obbiettivamente l'artista non può non avere coscienza di ciò e naturalmente ribalta nella propria opera la costante indeterminazione, che accompagna i rapporti del singolo con la realtà esterna. Di Ruggiero allora restituisce tale necessaria posizione attraverso la dislocazione asimmetrica dei vari piani, che hanno cosi la tendenza a forzare il centro di gravita della superficie estetica. Si crea cosi una tensione, che supera una ricezione meramente contemplativa dell'opera, tra il congelamento formulato dal colore bianco e l'atteggiamento dei piani che tendono verso l'esterno, oltre i confini del quadro. Anche i segni disposti sulla superficie che la attraversano, si spezzano ai bordi dell'opera, ad indicare appunto l'impossibilità per essi di esaurirsi solamente nello spazio sezionato dall'operazione estetica. Si crea cosi il rimando obbligato verso la realtà esterna, dove esiste un mercato visivo intensificato dalla presenza di segni istituzionalizzati e dalla qualità dei materiali impiegati per la produzione ed esibizione dei segnali. Infatti Di Ruggiero usa dei colori industriali, i quali hanno la costante dell'immediata emergenza visiva, cosicché lo spazio estetico non diventa un luogo asettico dove si esibisce una pura forma, bensì una superficie-oggetto dove l'evento è costituito appunto dalla tensione tra il taglio razionale dello spazio e la vitalità riprodotta del contesto industriale. Cosi spesso i piani del quadro tendono ad «entrare» nella realtà esterna al quadro e nello stesso tempo i segni di colore industriale sono disposti in bande nette che trovano una precisa rappresentazione nella linearità appiattita della loro esposizione. Risulta evidente l'intenzionalità di contestare le leggi della visione, eccessivamente culturalizzate, attraverso la instaurazione di un comportamento ottico-percettivo, che riesca a restituire l'oggetto estetico come struttura visiva pura, che nello stesso tempo conserva fissata su di sé la dislocazione spaziale e l'immagine segnica della realtà circostante, per tendere alla fine alla formulazione di rapporto rigoroso ed oggettivo, cioè continuamente verificabile, con la realtà esterna.

Achille Bonito Oliva

dal catalogo della mostra alla Galleria «Guida» - Napoli. aprile 1967


 

Michele Bonuomo

LA NUOVA MANIERA DI CARMINE DI RUGGIERO

Visitando quest'ultima personale di Carmine Di Ruggiero, mi sono tornati in mente il suo Racconto marino, una tela del -61, e uno scritto di Lea Vergine del '63. Nel primo una sorta di esplosione cromatica irradiava dal centro una scarica materica investendo tutta la superficie del quadro: un gesto rapido e senza ripensamenti, imprimeva quella esuberanza e quella radicata facilità d'intuito ben individuata nel testo della Vergine: «Un fare concitato, un temperamento versato in un segno aggressivo di impostazione naturalistica sì ma anche di remota origine barocca». Queste parole - ai più può sembrare strano o riduttivo - sono ancora chiarificatrici ben guardando l'ultima produzione di Di Ruggiero. Ammettendo questo, è lungi da noi un giudizio di immobilità nella ricerca di Di Ruggiero: anzi proprio conoscendo i suoi scatti multidirezionali, le sue fughe senza pentimenti, le sue esperienze environmentali o popiste, o quelle ancora di derivazione suprematista, si può affermare che questa sua 'nuova maniera' stia a segnare una sorta di compimento spiralidale del suo continuo muoversi. Anche quando può sembrare che stia per tornare al punto si partenza, quando cioè il cerchio stia per chiudersi, Di Ruggiero imprime uno scatto al suo moto e ricomincia con una nuova curva che ancora una volta sfuggirà alla facile tentazione di chiudersi su se stessa. Se è vero che in queste ultime opere Di Ruggiero ha ritrovato la tensione 'sconvolta' dei lavori degli anni Sessanta, è ancor più vero che tutto questo acquista ancor più forza e suggestione alla luce di tutto il suo inquieto percorso. Questa sua nuova pittura è densa di emozioni espressionistiche, dove il segno veloce s'accompagna ad un ancor più veloce desiderio di ghermire una forma squassando sue componenti emotive e visive. «Il rapporto materia segno supera ogni schema - scrive Finizio - e la liberazione dei vincoli della tecnica lo porta a concludere che tutto può farsi pittura. Per quanto riguarda l'immagine, essa esiste come idea matrice, come pretesto di avvio, subito superata da un colore libero, maturo, orgiastico, fatto di spessori e di scavi che danno l'idea concreta del piano». La maturità di un pittore è qualcosa che somiglia sempre più spesso ad uno scrigno colmo dal quale volendo può venire fuori ogni sorta di segreta meraviglia, e nello scrigno di Di Ruggiero sono serbate ancora tante sorprese.

Michele Bonuomo

Il Mattino, Napoli, 19 maggio 1984


 

Toti Carpentieri

CARMINE DI RUGGIERO

A fondamento del lavoro pittorico di Carmine Di Ruggiero v'è l'oggettivazione del discorso estetico, intendendo con tale frase la volontà di restituire al simbolo la sua essenza visiva. Ed infatti, l'elemento formale diviene timbro, liberandosi parzialmente dalla struttura, e costruisce nella progressiva variazione della sua percettibilità una sorta di superficie estetica che però non diviene (e non lo è in partenza) asettica, nella sua accezione lessicale. La presenza geometrica (rigorosamente costruita) è razionale nel suo momento genetico e tende a definire un elemento come realtà ma anche come possibilità di spazio: fondamentalmente, è un certo ragionamento strutturale che potrebbe trovare i prodromi in alcune presenze americane ben evidenti, anche se il processo costruttivo si libera dal pragmatismo, che non ci è congeniale, divenendo rapporto indeterminato nella verifica di una realtà ottico-percettiva. Ed il segno si articola nella sua progressiva libertà di fruizione in una maniera tale da mettere in evidenza come la localizzazione dell'esigenza estetica nella limitazione superficiale del quadro, sia soltanto illusoria, in quanto l'opera è aperta, e nella sua struttura (costruzione quindi) e nella sua leggibilità anche e soltanto come atto estetico, o alternativamente ludico. Successivamente. Di Ruggiero, esaspera il discorso spaziale pervenendo alla costruzione del simbolo, facendo si che la figura diventi oggetto: a tal punto risulta evidente anche la non necessità del policromatismo che si annulla nella percezione del bianco come colore ibernato. E la percezione delle cose diviene totale sia come giustificazione che come capacità di lessico.

Toti Carpentieri

Arte Duemila Milano, maggio/giugno 1973


 

Luciano Caruso

L'ossessione del modello

II modello ideale eterno come fondamento di decifrazione cosmica (oggi si direbbe di decodifi- cazione, ma è lo stesso); ma «non vi sarebbe indicazione perché non vi sarebbe alter ego»; il modello esaustivo è un sogno antico; una ars mera-ars? — che si perde nel mito; Platone non rientrando che all'inverso in questo tentativo; ma c'è una più lunga tradizione; come lo scoprire o fissare le regole perché il modello corrisponde ... e l'ingenua fiducia che: il dinamismo del reale possa essere fermato; e il più dell'universale possa essere ricavato dal particolare; dai materiali di altra natura; per poi arrivare al salto finale: quasi come «la proposizione enuncia qualcosa soltanto in quanto è un'immagine», ma non proprio; un modello per concludere la comprensione della causa prima; dove: il principio è questo: non c'è nulla nell'essere che non possa essere ricondotto a un'altra cosa; e tutte le cose rimandano ... a un modello ideale eter- no; e la tautologia si chiude; perfetta e senza margini; cosi entrare in quest'ordine di idee; signi- fica giocare un gioco pericoloso; si rischia di restare schiacciati dalla stessa perfezione evoca- ta. Che dire allora se «il mondo reale esite solo nella presunzione costantemente prescritta che l'esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo? Si tratta di una certezza o di una presupposizione'! (a dar retta ad HusserI); il sentimento dell' Impossibilità del modello è solo un esempio; o è la dimostrazione (convincente?) dell'annullamento a livello dell'ego ope- rante; perdita del reale e sua reinvenzione a livello di turbamento della coscienza? momento strutturale della lettura e ritrovamento del modello; ne ideale ne eterno; ma costitutivo pur sem- pre di una mondanità alterata dell'agire; in ultima istanza la linea di demarcazione che l'autore introduce; compromette solo la continuità o anche la conseguenzialità dell'esperienza in atto? (se) il modello è un limite; dai molti significati non tutti (forse) afferrabili; perché a voltez; si pre- senta come avvenimento chiuso; e originale (con un suo ruolo di matrice); vedi affermazione dell'universalità; oppure come mezzo; funzione strutturale; che assicura la mediazione fra l'au- tore e il mondo; (e si tratta, dunque, di un vero e proprio rinvio; del rifiuto sotterraneo; costitu- zione del (proprio) mondo); e anche: come conclusione; termine finale della ricerca; interiorizza- zione del sentimento di rinvio; esperienza di un oggetto (modello) intenzionale; dove il modello (qui, nell'accezione dell'autore) è un limite in tutte e tré le accezioni; allora: dall'allentamento dell'ordito che la critica; in qualche modo è costretta ad operare: nel suo oggetto; si parlerà: di modello assoluto; ogni volta: che il modello è visto; come matrice del desiderio ordinatore del caos-intorno; o del nulla (tela bianca, secondo le affermazioni dell'autore); si avrà poi un model- lo relativo (dalla psicologia del vissuto); nei rapporti di derivazione-opposizione: con l'esistente; che il modello aiuta a decodificare: in vista di una semantica (assiomatica?); in fin dei conti ma- niacale; si può aggiungere il modello reale (nel senso della scolastica): struttura costitutiva trascendentale-trascendente; che tutto esaurisce dentro di sé; e si pone come il segno esausti- vo; quello più vicino alla morte; il resto è semplice ipotesi; o forse scoperta (vero e proprio ritro- vamento); come il modello immaginario o il modello differito; di continuo spostato: fuori posto, nel continuo gioco degli specchi della repressione-vanificazione; liberazione e riaffermazione dei legami; ma sempre in posizione di desiderio (inaccessibile) e possibilità ricorrente. Qualun- que prodotto futuro è riconducibile ai suoi elementi di partenza; si afferma; ma è chiaro: che nella misura in cui "gioca un gioco" l'autore non trae nessuna conclusione; o scioglimento dal- le forme essenziali; "giocare" diventa immediatamente "agire"; abbiamo visto; in accordo con certe regole scoperte o stabilite; per la prima volta; e già questo sarebbe un uscire dal semplice gioco; per sciogliere la struttura del mondo; per concludere che si è agito in questo modo; se non interviene il meccanismo di "fuga delle idee"; in conformità di una regola generale; supera- ta; è il caso di dire, in base ad una iperattività ossessiva del modello; «perché parlo sempre del- la costrizione da parte di una regola? perché non parlo del fatto che posso volerla seguire? que- sto infatti, è ugualmente importante» (vedi: Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica). Finalmente: risulterà possibile costruire una tavola provvisoria; del tipo di quella legge che segue: al cèntro della quale si trova la direttiva semantica che la lotta sperimentale dell'autore; ha cercato di sviluppare nei suoi insiemi: modello assoluto - desiderio - semantica

modello relativo - derivazione - esistente

modello reale - opposizione - trascendentale

modello immaginario - struttura - meta-analisi

modello differito - invenzione - liberazione dal desiderio - significato

Dove: le varie nozioni di modello; stanno ad affermare che ogni tipo di conoscenza; è rappre- sentazione del reale-dato-affermato o esperito; genesi e derivazione dei modelli; sono situati nel secondo elenco della tavola; resta da sottolineare; la chiusura perfetta (vedi: desiderio) del- la teoria su se stessa; ma il terzo elenco (della/nella tavola) nel concludere con la liberazione del significato; introduce (dalla capacità isolata di desiderare la nozione di dialettica; cioè la pratica di una serie di rapporti impossibili; che l'autore volontariamente introduce; montando dispositivi che rimandano al referente-pratico e non più solo formale; «non è un modello che esaurisca un essere»: ma l'uso dei modelli che esauriscono il modello, sì! Il modello, certo, è assunto; da parte dell'autore: come eidos di una precisa realtà (il cammino anche all'inverso è lo stesso (?)); a sua volta forma precisa e perfetta (?), e non come modulo; cosi: il richiamo che immediatamente; il lettore distratto potrebbe stabilire; con l'astrattismo storico: è inesatto da- to che; il suo concetto di modello non mette "in rapporto il pensiero formale con il suo ester- no"; si dovrà perciò ricorrere; alla nozione di reattivo; non in termini rigidi, ma critici, certo; rilet- tura che introduce una nozione di: distanza-vicinanza che ribalta (ha l'effetto di ribaltare) i nessi costitutivi di quello a vantaggio dell'operazione presente. Lo stato di "forza produttiva" interna del modello; (che è solo l'inizio del percorso dialettico); in questo caso il triangolo; (e sarà me- glio lasciare da parte simbologie: complesse o meno: referti psicanalitici: inconscio collettivo: e tanto meno: significati sessuali); basta la perfezione magico-geometrica altrettanto illustre ed antica; permette di raggiungere il massimo di estensione (nelle combinazioni; o anche da solo); "che possa ritrovarsi senza abbandonarsi allo spazio"; e, insieme, il massimo di: concen- trazione dell'operazione (a volte con motivazioni evidenti e a volte senza); per stabilire la dispo- sizione (ritenuta reale ed esauriente); e nello stesso tempo contraddirla; (quale sarà in concreto la miglior forma che si adatti all'operazione; per poter poi passare alla realizzazione concreta dell'universale?); ora: questo primo movimento dialettico dell'immagine modello; fra estensio- ne e concentrazione avviene su di un piano; (comunicazione di un solo modo del pensiero); che in qualche modo afferma una sorta di scientificità ed assicura l'unità fra sintassi formale e campo intuitivo; accentuando la complessità di fondo del rapporto; (lasciando da parte le diffi- coltà interpretative); che l'autore stabilisce con il mondo riportato ai suoi elementi essenziali; in questa prospettiva di pensiero; per poi procedere ad una verifica semantica della corrispon- denza; (si mostra una conoscenza dall'interno; che attinge l'assoluto, cioè la cosa, l'oggetto, quale effettivamente è in se stessa; mentre al presente si può costruire solo un meccanismo di avvicinamento; esterno relativo); con il massimo di rigorosità scritturale, consentita dal model- lo. Ma: niente può dimostrare che quel rigore si sviluppi secondo il modo indicato; il rigore in questo percorso altamente sperimentale: si rivela nell'agire; dunque nel significato degli insie- mi che vengono costruiti; ( è evidente che il procedere dell'indagine non è sottoposto del tutto; all'arbitrio del singolo; ma segue una direttiva che trae origine: dalla problematica della stessa indagine); cioè: gli insiemi sono il momento di connessione con il mondo (quindi sono il mo- mento materiale vero e proprio); dopo quello concettuale del modello come dimostra (in oppo- sizione a gran parte della pittura d'oggi); il nesso che si stabilisce (in modo tutto particolare, ve- dremo); fra modello e spazio: «dunque è la 'pittura' a tornare in primo piano come genere, e non potrebbe essere altrimenti, e genere d'azione sensibile, peso, fatto fisico, concentrazione, uno spazio che tocca ad ognuno gestire ed agire (e ancor prima, fisicamente, come presenza), è un momento di discontinuità, luogo, energia, condensazione di possibilità e virtualità» - Paolo Fossati - ; l'autore, invece, anche se parte da un piacere simile del gesto (quasi fisico, appunto, come dice); di dipingere e di usare il colore si muove in uno spazio asettico; senza prospettiva, assunto come forma (il quadrato della tela); chiusa e quindi falsa posta a simboleggiare il vuoto bianco; su cui si strutturano i vari incontri del modello; (dunque: l'approfondimento dell'indagi- ne conduce al rinvio: di ogni scientificità - oggettualità; costituita a una correlativa struttura es- senziale dell'intenzionalità che è per essa costitutiva: dunque al rapporto fra il mondo inteso; come universo di trascendenze costitutive e i momenti strutturanti; o costitutivi di quest'univer- so; al rapporto tra noema intenzionale e noesis intenzionale; tra prodotto trascendente e pro- durre trascendentale: tra vita vissuta e vita vivente o agente; - vedi: Ludwig Binswanger, Intro- duzione . . . ); sorge quindi un secondo movimento dialettico: fra lo spazio bianco e lo forme perfette del modello; non a caso (si afferma) colorate; violentemente; che è lo stesso che si può ritrovare nel rapporto fra spazio falso; il quadrato bianco e il modello triangolare (inteso come fattualità); dalla cui compenetrazione vien fuori una lettura metalinguistica del reale: (l'impe- gno consiste nell'atteggiamento più aperto; sui problemi di fondo della comunicazione); (se) queste operazioni: permettono, in effetti, una critica totale dei processi stessi di lettura; attra- verso una serie di montaggi (veri e propri ragionamenti); che: intaccano la sicurezza della strut- tura nelle varie iscrizioni (che il sistema così: costruito consente o respinge); ne risulta che l'operazione si sviluppa sempre in entrambe le direzioni: gli incastri; gli insiemi che sorgono dall'uso del modello nascono; in funzione del vuoto e si dispongono frontalmente (tuttalpiù si sovrappongono: ma come superfici senza sospetto di profondità); pur articolandosi e dispo- nendosi in un modo sempre nuovo: perché hanno la stessa forza dimostrativa di una equazio- ne; perché quello che conta è portare in primo piano e mettere in evidenza; la costrizione gene- rale della regola (ne l'indagine può ritenersi conclusa con la sola descrizione dei processi ca- ratteristici); resta così: che per l'autore il solo modo chiaramente possibile per; indicare la dif- ferenza - unità del modello e dello spazio; bianco - della semantica e del vuoto - è il rapporto meta-analitico; tra la figura - l'oggetto significato; è il modello che diventa (nell'uso) una vera e propria categoria; (il colore di cui è rivestito ha il ruolo di sottolineare; il carattere indipendente del modello stesso: rispetto al fondo; quasi come di suoni musicali che pur spaziandosi nella rappresentazione: vivono solo in un altrove dallo spazio). Il terzo momento dialettico (che: l'autore introduce per ultimo; ma è quello che risulta piena- mente esposto al primo sguardo); che serve a dare unità a tutta la serie di lavori e a farne un'opera sola; è quello che si sottolinea con una struttura rigidamente disposta: anche nella semplice organizzazione della lettura); fra elemento dipinto (colorato) ed elemento tridimensio- nale (bianco); al centro della salar quasi come la concretizzazione di una vera e propria idea pla- tonica; (cosicché scatta una duplice prova di coerenza relativa/relazione); fra il modello rappre- sentato (come su di una mappa) e il solido fissato: nella sua purezza; con implicazioni realisti- che pur permanendo come rappresentazione astratta; (la stessa inaccessibilità dovrebbe: in qualche modo comprendersi; sulla base del notevole disturbo che il rapporto; dialettico nella stessa costituzione dell'opera; "mostra" come conseguenza dell'isolamento del modello).

Luciano Caruso

dal catalogo della mostra "Centro Arte Europa" 1973 - Napoli


 

Vitaliano Corbi

IL CICLO DELLA LUCE


Quali siano le cause del lungo intervallo che separa le ultime opere del 1980 da quelle successive, realizzate da Carmine Di Ruggiero in torno alla metà di quest'anno, lo dicono le profonde fenditure aperte nelle volte e nei muri dello studio dell'artista dal terremoto del 23 novembre. Ma evidentemente non sono stati, questi mesi di forzata inattività, un periodo vuoto di riflessioni e di propositi, di ricerche intuite ed in qualche modo prefigurate anche nei loro probabili esiti, se ne è scaturito, alla fine un gruppo di tele di così solidale coerenza da comporre come un ciclo e quasi un unico grandioso polittico sul tema della luce.
Veramente, questo tema, che s'era annunciato energicamente fin dallo scorcio degli anni Cinquanta facendo deflagrare con l'impasto cromatico la stessa compagine figurativa dell'immagine, ha sempre e profondamente attraversato l'esperienza artistica di Di Ruggiero. Anche quando questa, dopo aver imboccato la strada di un'esplicita e tangibile oggettualità, sembrò inoltrarsi nei cieli della "divina geometria". Ma ora - e si direbbe proprio discendendo da quelle imperturbate altezze - il tema della luce ritorna segnato da delicatissime insorgenze percettive e da vaghe connotazioni emotive che, mentre non lo fanno precipitare d'un colpo nel mondo degli eventi esistenziali, lo espongono tuttavia al soffio delle memorie e dei desideri. Un chiarore diffuso ed omogeneo dilaga sullo schermo delle tele. I diversi valori cromatici, materici ed oggettuali sono tutti riassorbiti nella luce: che diventa la sostanza vera dell'immagine, ciò che propriamente la costituisce nella sua dimensione virtuale. Il persistente richiamo ad un ordine geometrico delle forme risulta privato d'ogni tentazione metafisica, liberato di quella sorta di purismo, linguistico ed ontologico, che prima restringeva le scelte espressive dell'artista entro le possibilità combinatorie di alcune figure geometriche regolari, elette a modelli dell'essere e della coscienza, dell'arte e del mondo d'esperienze cui questa rimanda.
Delle figure geometriche non rimane sulla tela che una traccia, un'impronta nella luce, incerta tra la realtà e l'illusione. I triangoli, che nei "Giardini del Silenzio" si serravano a schiera, staccandosi immobili sul fondo bianco, ora appaiono distribuiti in uno schema compositivo arioso e disteso, scandito per larghe pause che danno respiro al lento e continuo propagarsi della luce. Anche se lo spazio s'è come aperto, spalancandosi frontalmente alla vista, non ne deriva un suo azzeramento sul piano di proiezione, ma al contrario un recupero di profondità, di distanze vibranti ed impalpabili evocate per scarti minimi di luce tra una superfìcie e l'altra, misurate quasi per gradienti di trasparenza. È necessario sottolineare come nel momento in cui gli elementi strutturali dell'immagine risultano alleggeriti e diradati, spinti talvolta fino al limite della rarefazione percettiva, Di Ruggiero riattiva la dimensione virtuale della rappresentazione, utilizzando con grande perizia ed acuta intelligenza le possibilità illusive dei mezzi e dei materiali adoperati.
La stessa tridimensionalità degli oggetti che sporgono dalla tela non è rivolta ad ottenere un effetto di brusca emergenza fisica o di sconfinamento dell'opera nell'ambiente esterno. Le superfici di quegli oggetti mutano la direzione e l'intensità della luce, la spingono in avanti o la attraggono in zone velate d'ombra, ma proprio dalla luce sono poi riconsegnate allo spazio dell'immagine.
Quando Di Ruggiero lascia in vista il margine appena scollato d'una tela o mette un piccolo telaio tra gli oggetti d'una sua composizione, richiamando così l'attenzione sui supporti fisici del quadro, quando fa trasparire nei campi di luce i segni della sua trascorsa stagione astratta, si è tentati di pensare che l'artista napoletano, con quest'ultima serie di opere, si sia attestato nell'area - lucidamente indagata da Filiberto Menna nella sua "Linea analitica dell'arte moderna" - che dall'astrazione inclina verso l'arte concettuale. E, d'altronde, quella rarefazione percettiva cui prima s'accennava non ripete forse il percorso, da Menna appunto descritto, che dalla "Grande croce bianca su grigio" di Malevich conduce alla "percezione liminale" di Ad Reinhardt?
In realtà, la tenue increspatura dell'orlo della tela, il suo dolce rilevarsi sulla superfìcie sottostante, individua nella contestualità della visione, prima ancora che un particolare procedimento di manipolazione dell'oggetto-quadro, la linea di sutura tra due piani di luce. Essa si situa, cioè, innanzitutto al livello degli elementi costitutivi dell'immagine virtuale. Dal quale solo conuno scarto di intenzionalità conoscitiva possiamo farla regredire a quello delle caratteristiche materiali dell'opera. Perciò la riproduzione in miniatura del telaio - il quadro nel quadro - è la dimostrazione che Di Ruggiero non intende far coincidere, annullandolo, il momento rappresentativo con l'esibizione della struttura fisica dell'opera, ne vuole rifare il verso alle presunte tautologie dell'arte concettuale. Infatti, mettendo il quadro nel quadro, proprio allo stesso modo con cui "stanno dentro" tutti gli altri elementi della rappresentazione, egli riapre le forbici della coppia significante-significato, quasi a mostrare che anche quando l'arte parla dell'arte non per questo rinuncia alla sua funzione referenziale. Così, ancora: utilizzando una scala luminosa estremamente ristretta, articolata per differenze percettive minime, liminali, appunto, Di Ruggiero si muove nella direzione opposta a quella che punta alla eliminazione dal quadro d'ogni residua rappresentatività.
Il suo è piuttosto un sensibilissimo ed accorto sondaggio degli infiniti valori intermedi tra i due estremi della scala. Movendosi tra questi, egli riesce a creare immagini che nascono e respirano nella luce. E sono, per la loro limpida ma complessa fenomenologia, per l'alone di silenzioso stupore che le circonda, metafore dell'inesauribile e sempre nuovo rivelarsi della vita attraverso l'esperienza dei sensi: un'alba degli occhi aperti per la prima volta sul mondo.
L'incontro con il "ciclo della luce" di Di Ruggiero suscita il ricordo di altre immagini,dipinte dall'artista nella seconda metà degli anni Cinquanta, con accenti che ancora oggi risuonano tra i più intensi e toccanti, e non solo limitatamente all'ambiente napoletano. Pochi s'avvidero allora della forza che accendeva la pittura del giovane Di Ruggiero e la faceva esplodere in scaglie incandescenti di colore. Ancor meno furono quelli che intesero come egli facesse avanzare i termini della situazione artistica, in un momento particolarmente vivace e ricco di proposte alternative, con una sua personale versione dell'Informale che non si risolveva in interventi sulla pelle soltanto della pittura.
Al suo avvio, la ricerca di Di Ruggiero s'alimentò forse dei frutti già maturi dell'"ultimo naturalismo" padano. Ma in breve volgere di tempo gli esiti ulteriori si rivelarono ben diversi; lontani, ad esempio, sia dal denso e terragno impasto di Merlotti sia dal furioso, parossistico "espressionismo solare" che Michel Tapiè, nel 1956, scorgeva nei dipinti di Moreni. E proprio rilevando tale diversità, Oreste Ferrari, qualche anno dopo, individuerà la dimensione dell'immagine di Di Ruggiero in "quella, attiva e tutta liberata d'ogni sottintesa nozione, del gesto che insistendo su di essa l'aggredisce e la lacera in crepitanti brandelli di materia". Ma non era un'adesione alla poetica del "gesto". Questa ebbe indubbiamente una parte decisiva nel fugare ogni residua tentazione di tenere in piedi l'impalcatura neocubista, messa su nel periodo dell'apprendistato all'Accademia, alla scuola di Emilio Notte; questa aiutò anche l'artista a rimettere in discussione i nessi di una visione troppo ordinata, dove le superfici si connettevano tra di loro secondo le regole di un severo ed asciutto tonalismo. Ma il "gesto" - e si potrà parlare, sulla scorta delle notazioni di Ferrari, della spinta venuta in tal senso da Pollock, da De Kooning e da Guston non fu che l'elemento catalizzatore, che accelerò un processo già in corso, dove il reattivo principale era la luce. La quale, infatti, già da prima aveva aperto varchi profondi nel tessuto plastico della forma e prodotto ferite mai più rimarginate. Per questa fase, che non può dirsi in alcun modo "gestuale", ma che è di straordinario slancio luministico, si veda la "Crocefissione" del 1957, che s'erge come un grandioso e corrusco lacerto, sfasciato e corroso dalla luce, eppure ancora mirabilmente
palpitante di vita nella materia bruciata dai bruni più spessi e fondi, e sfibrata nei bianchi grondanti dolcissimi umori cromatici. Il rapporto con l'Informale, d'altronde, fu vissuto da Di Ruggiero in maniera fortemente problematica, con una tensione espressiva che derivava dal fatto che egli, rifiutandosi di declinare l'imminenza percettiva, la prossimità senza respiro dell'opera informale, in eleganze materiche o di segno, tentava di riorganizzarla in una nuova spazialità, (non più tenuta ferma dalle briglie della prospettiva o di ogni altro preordinato sistema di rappresentazione) e di ricondurre l'evento pittorico sotto il segno della "visione". E sarà ancora la luce che, dopo aver lacerato l'involucro plastico della forma, si assumerà un ruolo letteralmente "portante", invadendo lo spazio e mantenendo a galla i relitti della forma.
Si potrà capire, dunque, per quali vie Di Ruggiero potesse continuare a insistere su una tematica dichiaratamente "figurativa", almeno sino alla svolta del decennio successivo. Tale "figuratività" - che, essendo stata ricondotta, come s'è visto, ad una dimensione spaziale estremamente fluida e affidata soprattutto alla tenuta del medium luminoso, potrebbe definirsi neoimpressionistica - fu perseguita da Di Ruggiero in piena autonomia tanto da quella del "Gruppo 58", di derivazione tutta "nucleare", quanto da quella, maturata in ambito realistico, che proponeva di far ponte dall'espressionismo alla tradizione naturalistica seicentesca. Nella situazione artistica napoletana, in quegli anni di animoso dibattito culturale, la ricerca di Di Ruggiero apportava un contributo di chiarezza, anche per i suoi risvolti implicitamente polemici. Se, infatti, nei confronti dei coetanei del "Guppo 58" lo insospettiva quell'attingere a piene mani e troppo disinvoltamente nei depositi del surrealismo e del folklore locale, neppure lo convinceva la proposta di chi, una volta avviato il processo di rifusione a caldo della sostanza figurativa dell'immagine, pensava di poter estrarre dal crogiuolo infocato dell'abstract expressionism il filo continuo di una tradizione e con questo tentare rischiose operazioni di innesto. Quale valore, poi, potesse assumere un approccio all'Informale, sollecitato da autentiche emozioni individuali, da parte di un artista dell'ultima generazione, potrà intendersi rileggendo queste parole di Francesco Arcangeli: «negli anni che vanno dall'ultimo conflitto fino all'attenuarsi della "guerra fredda", i campioni più legittimi di un realismo moderno che sia risposta in profondità al tempo, furono i campioni più grandi dell’Informel, che essi soli di quel tempo seppero tradurre veramente la perdutezza, la ferocia, l'umano smarrimento». Se è vero, cioè, che l'Informale, non dico nell'interezza del suo variato e diseguale panorama, ma per quel tratto più aspro e accidentato dove si congiungono le strade, pur così diverse, di Wols, di Pollock e di De Kooning, seppe stringere da vicino le ragioni profonde dell'arte e della vita ad un punto oltre il quale non sarebbero andate neppure le successive esperienze oggettuali e comportamentali - non meraviglierà che anche a Napoli l'ondata dell'Informale potesse produrre qualche effetto benefico, favorendo una più attenta sensibilità ai problemi di fondo dell'esistenza, nei suoi nodi storici ed individuali, cui avevano fatto ombra, negli anni precedenti, sia una progettualità astrattamente razionalistica, sia un contenutismo ideologico troppo spesso ingenuo e schematico. Il primo beneficio prodotto fu di ordine "igienico", poiché fu sgombrato il terreno dai resti delle contrapposte barricate dell'astrattismo e del neorealismo. Ma il più importante si vide nelle opere degli artisti della generazione da poco giunta sul campo: forse perché la crisi degli schieramenti - e intendo proprio quelli più direttamente connessi alla cosiddetta "politica dei blocchi" - non li coinvolgeva in maniera così radicale, come invece accadeva alla generazione precedente; forse perché, al verificarsi di un'apertura internazionale di proporzioni così vaste e di tempi così rapidi quali mai s'erano dati nella storia recente dell'arte, li avvantaggiava una capacità ancora integra di recupero. Ma è certo che da Pisani e da Waschimps, da Alfano e da Di Ruggiero prese avvio, facendo perno su di una comune ma differenziata esperienza informale, una stagione nuova della pittura a Napoli.
Di questa stagione Di Ruggiero è stato un silenzioso e autentico protagonista. Egli s'addentrò in una avventurosa ricerca di luce, se così si può dire, in cui con i frammenti della figurazione brucerà l'idea stessa della pittura. Per rinascere a distanza di anni, come al compiersi di un ciclo.


Vitaliano Corbi
Napoli, 1981


 

Enrico Crispolti

GEOMETRIA E RICERCA : Carmine Di Ruggiero

I dipinti più recenti di Carmine Di Ruggiero sono ad evidenza fondati su strutture nate da una iterazione modulare : ripetono infatti a schiera il triangolo equilatero come matrice formale costante, e lo ripropongono in posizioni diverse, in direttrici comunque piuttosto ordinate, ortogonali o diagonali, a schiere appunto, più o meno fitte. E le strutture di ciascun dipinto nascono da tali iterazioni del triangolo/modulo.Le composizioni strutturali sono diverse, asimmetriche, secondo cioè una serialità irregolare e libera, che si equilibra/squilibra infine nel gioco delle presenze cromatiche, che sono di campiture piane e compatte di ciascun triangolo/modulo, in giochi di dissonanze e corrispondenze.

Ad evidenza dunque in questi dipinti recenti di Di Ruggiero la serialità modulare (del triangolo appunto) è impiegata in senso analogico estraneo ad una nozione di forma pura assoluta; nel senso cioè di una deliberata sottrazione da una dimensione concettuale della forma stessa, per usarla invece appunto in un pronunciato impegno analogico (il che non vuol dire non rispetto dei valori formali, ma certo conclusione su una insufficienza semantica del loro valore puro, tautologicamente.

L'operazione non è certo nuova nella storia della pittura astratta : e basti l'esempio aulico e clamoroso del Boogie Woogie newyorkese di Mondrian, e dei dipinti che gli sono intorno, per ricordare come — e al livello più alto e delibato di strutturazione formale — la forma pura possa farsi esponente di un risalto emotivo in relazione strettamente ad una corrispondenza ambientale. E d'altra parte a suffragare una tale lettura dei dipinti più recenti di Carmine Di Ruggiero giocati sulla modularità triangolare sta tutta la sua precedente vicenda di pittore (e persino episodicamente di scultore) : voglio riferirmi anzitutto è chiaro a quella sua partenza informale dello scorcio degli anni Cinquanta.

Evidentemente il rapporto analogico che presiede semanticamente all'impiego modulare della forma e all'intreccio di corrispondenze e contrasti cromatici in questi dipinti, si pone con una situazione ambientale operativa ed esistenziale molto precisa : quella alla quale Di Ruggiero da sempre appartiene, la situazione napoletana. Il rapporto analogico è dunque evidentemente con una vivacità ambientale napoletana (e mi si passi una terminologia così sommaria, ma non credo poi del tutto inefficace).

In questo senso anche il lavoro recente di Di Ruggiero è estraneo a quell'operazione di fiducia avveniristica di fondazione culturale (nel possibile aggancio con una realtà industriale da contrapporre alla condizione esistenziale di Napoli) che fu nella prima metà degli anni Cinquanta del gruppo napoletano « Arte Concreta ». Proprio perché Di Ruggiero opera appunto sulla forma in modi legati ad un fenomenologismo analogico, nel segno dunque della corrispondenza ad una effettualità contingente, locale (che invece l'operazione napoletana « arte concreta » attenuava in intenzione di dialogo internazionalistico prioritario).Ma in questo modo Di Ruggiero rinnova la propria professione di volontà di assumersi interamente la responsabilità di un rapporto ambientale, che è di fatto sociologico. Egli piega dunque la forma pura a questa funzione di analogia semantica d'una propria realtà.

Così quelle che ci propone non sono tanto forme, distaccate forme « pure » appunto ; quanto piuttosto sono segni, segnali — se si vuole — che Di Ruggiero dispone e direi persino mischia secondo una vivacità fenomenologica di riscontro analogico ambientale: una vivacità che urge, che si fa presente, e che indubbiamente il pittore sente appartenere al proprio mondo, corrispondere alla propria natura, inerire nella propria dimensione d'esistenza. E il negarlo sarebbe falso e arbitrario. Più sensato tentarne invece in termini culturali problematicamente avanzati una propria interpretazione, tentare una corrispondenza che vale in fondo una possibilità in certo modo anche di riscatto.

C'è in fondo un atto di umiltà (che è responsabilità, non certo dimissione culturale) da parte di Di Ruggiero nel chiarirsi i modi di un lavoro semplice e pulito, e che si imponga come lavoro anzitutto sulla forma e con la forma, e che intenda quindi essere un modo di corrispondere da uomo di cultura aggiornato sui testi internazionali ad una contingenza che gli è tipica, che si è assunto come dimensione esistenziale, appunto.

E la chiarezza e validità dei risultati, che sono propri e non imitano alcun modello più o meno aulico, danno ragione alla bontà ed autenticità di questa operazione, indubbiamente anche coraggiosa.

Enrico Crispolti

Marzo, '74


 

Gillo Dorfles

L' OGGETTUALIZZAZIONE DELL'IMMAGINE

               L' oggettualizzazione dell'immagine: questa l'operazione fondamentale nella creazione artistica di Di Ruggiero.
La oggettualizzazione, come "cosificazione" (come Verdinglichung), che rende "cose" gli eventi e i momenti e che ha trovato in molti artisti dei nostri giorni: da Castellani a Bonalumi, da King a Tucker, da Tony Smith a Stella, una precisa formulazione. Ma, nel caso di Di Ruggiero, il farsi oggetto dell'immagine non rientra nell'ambito delle Primary Structures statunitensi, gigantesche operazioni di "riempimento spaziale" che solo una civiltà tecnocratica come quella d'oltreoceano poteva ideare.
Per Di Ruggiero, invece, l'oggettualizzazione è ancora - per sua fortuna - di carattere personale, studiata e realizzata attraverso sottili giochi di intarsi del legno che acquista così la purezza dell'oggetto di serie senza però perdere la levità della sua originaria natura organica.
L'incontro tra l'organicità delle forme (aiutate dall'impiego di un materiale "naturale" come il legno) e la fredda pulizia dei materiali di copertura (vernici acriliche, colori industriali) è alla base dell'efficacia espressiva di queste opere. Ma, mentre nei rilievi degli anni scorsi, le singole forme apparivano ancora limitate dalla artificiosa chiusura della cornice o dalla loro composizione esclusivamente bidimensionale, nelle opere dell'ultimo anno il respiro si è fatto molto più largo: le vaste superfici - il più delle volte candide - si sono espanse ad abbracciare vaste stesure spaziali, e - pur rimanendo, nella loro sintassi costruttiva, legate alla loro matrice bidimensionale - si sono venute sviluppando anche volumetricamente così da assumere le dimensioni e le prerogative di vere e proprie sculture.

Alcune di queste, come i "Grandi dischi sospesi", il "Tutto bianco" del '69 e la "Grande forma" pure del '69, costituiscono, ci sembra, una riprova di come, al giorno d'oggi, non esista un confine apprezzabile tra pittura e scultura, e come, l'incidenza dell'attività manuale possa ancora risultare determinante per la realizzazione di quelle opere plastiche capaci di sfuggire all'asservimento ad una mera componente tecnologica che troppo spesso coarta la produzione artistica della nostra civiltà.

Gillo Dorfles
Dal Catalogo della Mostra alla Galleria Cenobio Visualità, Milano, 1969


 

Luigi Paolo Finizio

NOTE SULLA PITTURA DI CARMINE DI RUGGIERO

[...] Rispetto pure a vicine esperienze di artisti più anziani a Napoli (da Barisani a Spinosa) e in campo nazionale, l' avvio è del tutto deflagrante nell'autenticità di un confronto e di una scelta che la sua generazione ha sentito attuali e non trascurabili.
L'informale in quegli anni a cavallo del nuovo decennio, gli anni Sessanta, costituisce ancora una soglia e un terreno da varcare e percorrere per stare risolutamente nella pittura, nel corpo della pittura. Verranno poi le stagioni dell'estroversione più spinta dell'oltre la pittura, ma allora a Di Ruggiero, ad altri come lui (non solo a Napoli), la pratica dell'informale segnava il campo d'immagine più risoluto. Enfaticamente nel suo campo d'immagine l'atto compositivo si stringeva al dipingere stesso, all'azione che trova, che pondera direttamente tracciando, sedimentando colore e materia nel campo pittorico.
Subito Di Ruggiero si misura con le calamitanti virtualità che il gesto ha dischiuso alla veloce ideazione visiva della poetica informale.
La sua indole compositiva, la lezione cubo-futurista che come un reticolo di coscienza filtrano il suo tuffo nell'incondizionato, nel dissolvimento presto orientano, coagulano, assestano il campo d'immagine.
Come ho già avuto modo di dire, appare leggibile nelle opere che segnano l'accesso di Di Ruggiero all'informale che tale poetica si apre ai suoi intenti espressivi in un tragitto di immersione sensitiva, senza margini di distacco mentale. Ma devo ora aggiungere che tale immersione trascina i suoi termini di linguaggio, li aggancia alla incondizionata virtualità della poetica informale. Per il modo insomma con cui il suo sentire e il suo formativo reticolo di coscienza misura e conduce il gesto informale, la sua pittura ne sonda e delinea le potenzialità di costruzione, di assestamento attraverso i campi e la materia del colore.
La caduta dell'oggetto, la dissoluzione di fisionomie si danno oltre la grammatica delle impalcature cubiste, delle dinamiche plastico-futuriste. Esse s'interiorizzano, si pongono in filigrana per darsi una nuova consistenza visibile tutta integrale al gesto pittorico. Questa sensibile vincolazione, questa immanente suscitazione d'immagine, costituiscono in fondo la sostanza visibile della sua identificazione tra percezione e realtà. Da questo radicale avvio per Di Ruggiero non si daranno più alternative tra presunti statuti di realtà e non meno presumibili codici espressivi, ma ricerca sì, e inarrestabile, di opzioni espressive. Ricerca di trasmettere nel linguaggio, libero da ogni mediazione che non sia del linguaggio stesso, i propri processi d'esperienza con la realtà.

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Lungo l'intensa esperienza di poetica informale, allo scorcio degli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta, entro un panorama di cultura artistica certo più sensibile e attento di quello attuale, i riconoscimenti alla pittura di Di Ruggiero furono presto lusinghieri. La critica più avvertita delle ricerche artistiche contemporanee e la presenza nelle rassegne espositive più importanti, da Spoleto alla VII Quadriennale, dal "Michetti" alla XXXII Biennale di Venezia, gli hanno assicurato un posto di primo piano, consegnandolo con rilievo a una stagione artistica che prima o poi dovrà essere opportunamente inquadrata storicamente sia sul territorio napoletano che su quello nazionale.
Oltre questa fase creativa di poetica informale Di Ruggiero mostra spingere fuori il suo reticolo di coscienza, la sua ereditata grammatica d'immagine. Proprio nella Libreria Guida nel 1967 egli allestì una prima rassegna di questa sua svolta espressiva: una vera e propria estroversione del gesto compositivo. Come scrisse Filiberto Menna nel presentarlo in catalogo, l'opera di Di Ruggiero diventa "oggetto tra altri oggetti della nostra scena quotidiana". L'assetto d'immagine ha assunto ora lo spessore aggettante del manufatto, il suo ordito si snoda su movenze vagamente organiche o si delinea su assetti rigorosi di piani geometrici.
Il piano solido di un riquadro su tavola fa ancora da campo di visione ma tutto si tiene nell'assoluto del bianco di smalto che quando non invade per intero il campo d'immagine si mostra attraversato da nette, oggettivate campiture di colori acrilici al fluoro. Di Ruggiero ha quindi decisamente portato fuori dalla vincolazione soggettiva il suo fare arte. Nella temperie degli anni Sessanta e Settanta tendenzialmente volta all'oggettualità dell'opera, allo scavalcamento o all'analisi più rastremata del campo pittorico (pittura-pittura), l'artista opera con una chiara dizione non smemorata dei propri interiorizzati criteri espressivi.

All' oggetto ansioso" (Rosenberg), all'oggetto ora ironico oradrammatico, specialmente in auge a Napoli, egli appare corrispondere con una forte inserzione creativa dentro la memoria storica dell'astrattismo. Rinverdendone cioè il filone di continuità che passando per le vie del cosiddetto "concretismo", in cui cadono le convenzionali distinzioni di bidimensione e tridimensione, di pittura e scultura, si arriva alle coinvolgenze dell'opera ambiente.

Quando Di Ruggiero dal 1968 cominciò a demarcare il piano, il riquadro di visione realizzando con legno e plastica delle installazioni che s'impongono nello spazio di una galleria o nelle strade della città, come nella tentacolare e grifagna "La grande forma" posizionata a piazza Trieste e Trento per il "Natale a Napoli" del 1970, ancora Menna aveva commentato il suo lavoro come "un grado zero della pittura, per poi abbandonare la parete e invadere lo spazio ambientale".

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II mio diretto incontro con l'opera di Di Ruggiero si svolge durante una ulteriore fase espressiva che muove dal 1974, qualche anno dopo, dal 1981, siamo anche colleghi d'insegnamento nell'Accademia di Belle Arti a Napoli. Un nuovo corso espressivo che avvia pure dal praticato "grado zero della pittura" al momento attuale del suo fare arte un tornante, una riconversione dapprima come di ricognizione e ristrutturazione di termini primari nel campo visivo della pittura per poi riconsegnarsi alla vincolazione soggettiva, al gesto che rigenera e riassesta il corpo pittorico.

Nel 1976 con Barisani, De Tora, Piccini, Tatafiore,Testa e Trapani, Di Ruggiero da vita al napoletano gruppo "Geometria e Ricerca".
Un sodalizio affiatato (oggi non sono più in vita Piccini, Tatafìore e Testa) che all'intesa di ricerca espressiva ha unito un intenso lavoro di autopromozione con mostre e pubblicazioni. Edito dall'IGEI di Napoli esce nel 1979 il mio "L'immaginario geometrico" dedicato all'attività poetica del gruppo.
Alla vita del gruppo durata sino al 1980 è stata dedicata nel 1996 una retrospettiva curata da Mariantonietta Petrusa Picone e allestita presso l'Istituto Suor Orsola Benincasa. Il catalogo a corredo della rassegna oltre al testo della curatrice porta quello di Angelo Trimarco che con la discussione svoltasi la sera d'apertura (i partecipanti alla discussione erano Crispolti, Dorfles, Finizio, Picene e Trimarco) hanno fornito un nuovo contributo di lettura sull'opera degli artisti del gruppo. Un evento certo di rilievo per Napoli se non altro perché è stata la prima volta che a livello pubblico nella cultura artistica napoletana si è tornati a riflettere in tempi ravvicinati su di un fatto contemporaneo della propria vita artistica.

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Attraverso il quadro storico che ho delineato nel mio "L'immaginario geometrico" a partire dagli anni Cinquanta quando nasce a Napoli il Gruppo Arte Concreta (Barisani, De Fusco, Tatafiore e Venditti) sino alla metà e oltre degli anni Settanta con il costituirsi di "Geometria e Ricerca", proprio rispetto alla copresenza operante di Barisani e Tatafiore, l'opera di Di Ruggiero assume un ruolo centrale e di cerniera nel richiamo consapevole che a quella conterranea esperienza di arte "concreta" gli altri più giovani componenti (De Tora, Piccini, Testa e Trapani) mettevano di fatto nella intrapresa intesa di gruppo.
Alle opere di intervento ambientale, di intrusione sensitiva nellospazio, Di Ruggiero fa seguire nel corso dell'esperienza di gruppo una più contenuta estroversione del campo d'immagine. Ritornato decisamente al piano di visione, questo recupera l'indifferente status "concretista" tra bidimensione e tridimensione per ergersi a tavola di rappresentazione. Simili a prospetti architettonici o sorta timpani queste tavole modulate da gradinati piani quadrangolari o triangolari mostrano come un fregio campante la successione e il sovrapporsi di triangoli cromatici. L'esito è tutto ricondotto alla monumentalità della visione, all'esultanza del colore nei suoi termini di accensione mentale e pulsazione percettiva. Un ritomo ai fasti della natura ma in un'estrema riduzione Ulteriore e mentale.
L'orizzonte è quello solare di Napoli, come indica il titolo di una prima serie di questi lavori: "Tavole napoletane".
La scelta del triangolo non ha scopi di costruzione geometrica ma di configurazione dinamica (tende più alla freccia, al vettore), di pattem idoneo a temperare il flusso emotivo, l'eccitazione percettiva, lo scorrere corpuscolare di luci e ombre. Emblema o vessillo visivo in grado di suggerire nelle sue trame iridate e mobili una metafora visiva di forze vitali, di transiti e accadimenti dell'esistenza. Le matrici personali e la lezione formativa degli assetti cubisti e dei dinamismi futuristi paiono ora riafferrare con acuità di visione e sottile rarefazione, così come il gesto pittorico ha assunto una estrema cadenza inferiore, direi di sonorità cromatica.
Le ultime realizzazioni di questo ciclo orientano la metafora visiva dal cimento del mondo estemo alle tacite, raccolte, silenziose perturbazioni della vita inferiore, del segreto ascoltarsi e gridare verso la vita. Di Ruggiero ha pure intitolato questi lavori "il giardino del silenzio".
Certamente anche per Di Ruggiero come per altri, nel giro degli anni Ottanta e sino ai nostri anni, si fa avanti il pungolo del ritorno alla pittura. È in tale indirizzo che organizzo nel 1983 la mostra "Plexus '83 " a Napoli. Tra le opere esposte le sue forniscono una significativa rappresentazione di tale sentita urgenza che non poco si alimenterà di rigenerati e rivissuti attingimenti all'informale.
L'anno successivo scrivendo per il catalogo della sua mostra all'Accademia Fontano di Napoli, davo forte rilievo a un motivo dominante la sua ultima produzione risolutamente tornata alla pittura.
Il motivo cioè della natura. Al cospetto della natura si dava insomma, dicevo nel mio testo, un "cominciamento o ricominciamento" che per Di Ruggiero segnava la condizione del fare pittura e che le opere di questi anni Novanta dichiarano come continuità del suo destino di pittore dei suoi avvii e dei suoi proseguimenti.

Luigi Paolo Finizio

Incontro con Carmine Di Ruggiero
alla Libreria Guida, Napoli, 21 febbraio 1997